Trasformare il “Pubblico” con la partecipazione generativa
Massimo Rossi*
Il sistema pubblico alle prese con la disgregazione dei legami sociali
Uno degli effetti perversi del trionfo del pensiero unico del mercato è la disgregazione dei legami sociali e il crescente individualismo che ha offuscato l’idea stessa di comunità.
Ormai gli individui si percepiscono come soggetti isolati in competizione con tutti gli altri non solo per veder riconosciuti i loro diritti fondamentali, ma per ottenere dalle istituzioni “il massimo possibile”. Ne deriva un degrado della coesione sociale che, invece di essere contrastato dalla classe dirigente, viene da essa coltivato al fine di lucrare consenso a buon mercato at- traverso pratiche clientelari.
Una classe politica che in malafede confonde il bene comune con la somma delle risposte alle attese dei “privati cittadini”, producendo effetti devastanti sul territorio e sulla coscienza dei cittadini. Questi, a loro volta, invece di rivendicare la sovranità democratica delle scelte delle Istituzioni, esercitata attraverso la propria rappresentanza, sono sempre più animati dalla logica cliente/fornitore: “…pago le tasse e magari ti do anche il voto, quindi mi aspetto da te nient’altro che la risposta al mio problema”.
È un degrado culturale e sociale, prima che politico, che si ripercuote anche nei comportamenti degli stessi individui quando sono investiti di funzioni “pubbliche” dalle quali dipende la qualità della vita della comunità e l’effettivo riconoscimento dei diritti individuali e collettivi.
In mancanza di empatia nei confronti dell’utente del servizio si ha una scarsa passione per il risultato e una conseguente caduta di efficienza e di efficacia dei servizi pubblici. Si delinea un quadro desolante che, ovviamente, non può essere generalizzato ma che alimenta pessimi luoghi comuni sul lavoro pubblico, sulla distanza della “burocrazia” della vita e dalle esigenze delle persone, favorendo la subdola campagna tesa ad affermare la superiorità del “privato”.
Generare una nuova idea di Pubblico centrata sul paradigma dei beni comuni
L’esperienza personale di governo locale mi porta ad affermare che fortunatamente esiste una strada maestra per invertire questa deriva e ricostruire una nuova idea del “Pubblico” in grado di invertire la tendenza disgregativa e riconquistare la fiducia dei cittadini. La strada è quella di rigenerare la democrazia attraverso la partecipazione dei cittadini e delle loro aggregazioni nella condivisione delle scelte di governo delle risorse economiche e naturali comuni.
Emerge così una partecipazione generativa, in grado sia di dare vita a soluzioni congruenti con bisogni, diritti e aspirazioni sociali e sia rinnovare la democrazia come esperienza vissuta collettivamente.
È una rigenerazione capace di fare i conti con i profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni. Una rigenerazione che può avvenire a partire dalla presa d’atto della crisi irreversibile della democrazia rappresentativa che, in quanto basata esclusivamente sulla delega in bianco a forze politiche o, ancor peggio, a “uomini della provvidenza”, non è in grado di garantire né il bene comune, né la tenuta dei legami sociali. Si tratta quindi di un radicale ripensamento della democrazia che deve far leva sul nuovo paradigma dei beni comuni, intesi come beni e servizi, locali o globali, naturali o sociali. Sono beni che, in quanto fondamentali per la vita e la dignità delle persone, non possono né essere privatizzati né semplicemente nazionalizzati: debbono invece essere “socializzati”, governati e fruiti in modo condiviso e corresponsabile da parte delle comunità civili territoriali prima ancora che dallo Stato.
Occorre una profonda trasformazione dell’idea di “pubblico” che metta in discussione anzitutto il concetto di “sovranità”. Solo così si può immaginare la ricostruzione di relazioni feconde tra gli individui e di una cittadinanza responsabile, solidale ed ecologica.
La democrazia partecipativa come leva per trasformare il sistema pubblico e la società
L’attivazione e la coltivazione della democrazia partecipativa costituiscono pertanto una priorità assoluta dell’azione politica. Si tratta di una priorità praticabile a ogni livello, che trova il suo terreno ideale nella dimensione locale, di prossimità o di area vasta. Le città e le comunità territoriali hanno il potenziale di essere veri e propri laboratori per una indispensabile trasformazione globale. Senza scomodare i padri del socialismo basti ricordare che già Giorgio La Pira, sindaco democristiano di Firenze a cavallo degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, affermava con lungimiranza che “amministrare una città non è niente… la città deve avere un compito altrimenti muore”.
Abbiamo il bisogno prioritario di rilanciare un movimento che rivendichi la condivisione delle scelte di governo. Un movimento costituito da cittadini impegnati nelle pratiche partecipative, da forze sociali e politiche e da associazioni tra enti locali. In realtà dopo una stagione di forte radicamento, all’indomani dei WSF di Porto Alegre, questo movimento è oggi rifluito al punto che, salvo poche eccezioni, le esperienze locali residue sono sempre più ridotte a tecniche ben circoscritte in termini di portata delle decisioni.
La causa di questo riflusso è evidente. La partecipazione diretta dei cittadini è incompatibile con le spietate leggi del mercato che negli ultimi decenni hanno ulteriormente preso il sopravvento, esasperando processi di privatizzazione di beni e servizi e imponendo su scala globale e locale decisioni centralizzate, basate sulla massimizzazione dei profitti e delle rendite.
Analogamente, le pratiche autentiche di democrazia sono incompatibili con un modello di politica sempre più degenerato a mera lotta di potere che subordina programmi, progetti e principi alla raccolta di consenso a buon mercato. Sono politiche che impongono già nelle fasi preelettorali la firma di cambiali a grandi e piccoli gruppi di interesse clientelari che ipotecano le scelte successive e non lasciano spazio alcuno per i processi partecipativi.
Quali pratiche partecipative per generare ricchezza sociale e trasformare le coscienze
Le pratiche partecipative non devono venire ridotte a meccanismi circoscritti, dei quali magari si possano esportare “kit applicativi” e neppure diventare solo tecniche simili a sondaggi, magari praticati dietro ad un monitor usando una tastiera. Al contrario, la partecipazione può diventare una potente leva di trasformazione se ispirata ad alcuni principi fondamentali e organizzata secondo dinamiche agevoli di svolgimento.
Ne sottolineo alcuni sulla base della mia esperienza:
- La partecipazione va innescata e coltivata. Essa non straripa motu proprio rompendo gli argini, ma bisogna promuoverla, comunicarla in modo persuasivo, investire su di essa, modulare la comunicazione per arrivare alle fasce socialmente più marginali, valorizzarla senza mai tradirne le risultanze.
- Se i processi partecipativi hanno il fine principale di innescare il confronto diretto e il conflitto generativo tra i cittadini, questi non possono essere sostituiti da procedure online che, per quanto aperte e interattive, tendono sempre ad assumere il carattere di sondaggi.
- La partecipazione non deve essere limitata al solo bilancio di previsione di un ente pubblico ma deve poter ispirare le sue scelte fondamentali, come ad esempio il governo del territorio, la pianificazione urbanistica, i processi di trasformazione in ogni ambito.
- È fondamentale coinvolgere la struttura amministrativa nei processi partecipativi affinché dall’interazione tra i fruitori dei servizi e i soggetti incaricati di erogarli emerga lo straordinario privilegio di lavorare nel pubblico, in un ambito scevro dalle logiche del mercato e orientato al servizio della comunità.
- È necessario smitizzare e semplificare i documenti di programmazione e pianificazione. Bisogna gestire la complessità riconducendo il tutto alle scelte politiche che sono alla base di numeri, tabelle, norme, elaborati tecnici. Il bilancio non è un mero documento contabile, così come il Piano Regolatore non è un elaborato tecnico per addetti ai lavori ma entrambi sono la sintesi di scelte protese a realizzare un progetto democratico di città.
- Nel rapporto con gli Organi della democrazia rappresentativa, invece di una gestione dei processi partecipativi rigida che li ingessi tecnicamente, è preferibile una loro gestione “creativa”. La mia esperienza mi fa ritenere che, a fronte di meritori tentativi di attribuire un carattere deliberativo alle risultanze dei processi partecipati, al di là della loro valenza formale, essi assumono una forte carica trasformativa rispetto alla tendenza della concentrazione del potere nelle sedi decisionali istituzionali. Una volta innescato il processo per gli Organi Consiliari e di governo sarebbe molto difficile – se non a caro prezzo – discostarsi dalle sue risultanze. E laddove ciò dovesse avvenire, in quei percorsi partecipativi disattesi ci sarebbe l’innesco di processi democratici in grado di prefigurare un’alternativa rispetto allo status quo.
- I processi di partecipazione devono tendere al massimo coinvolgimento diretto dei singo- li cittadini in quanto non si tratta di assumere semplicemente la decisione più condivisa, ma di attivare processi di trasformazione delle coscienze. Modalità e qualità del percorso sono essenziali.
Il nuovo Pubblico come spazio di beni, istituzioni e pratiche condivise e accessibili a tutte/i
Le coscienze si risvegliano tramite esperienze di dialogo, di conflitto generativo, di progettazione condivisa.
Soltanto un sistema pubblico in grado di rendere la democrazia un’esperienza reale e fruttuosa, e non una mera formalità, potrà produrre ricchezza sociale e consentire la riappropriazione collettiva dei beni comuni. Un processo del genere costituisce la premessa indispensabile per il fiorire di una forma alternativa di società, dove il mercato sia ricondotto alla dimensione subordinata che gli compete come strumento di allocazione di beni commerciabili e solo di quelli.
La via da seguire è quella della restituzione dei beni comuni naturali e sociali alla gestione democratica delle comunità civili in modo che la loro fruizione sia universale. “Pubblico” è lo spazio di beni, istituzioni e pratiche dove ciò che è di tutti è condiviso, accessibile, gestito mediante corresponsabilità partecipativa, amministrato con giustizia verso la dignità delle persone e con sollecitudine verso gli equilibri della natura.
* Massimo Rossi è stato Sindaco di Grottammare dal 1994 al 2003 e Presidente della Provincia di Ascoli Piceno dal 2004 al 2009. Dirigente nazionale dell’ANCI, Vice presidente dell’UPI con deleghe all’ambiente ed alla cooperazione decentrata e componente della Conferenza Stato-Città e Autonomie Locali. È stato cofondatore della Rete del nuovo Municipio, membro del Contratto mondiale dell’acqua e del coordinamento nazionale degli Enti Locali per la Pace. Nel 2011 e 2012 è stato Portavoce nazionale della Federazione della Sinistra.
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