Tre domande cruciali per il sindacato di oggi e di domani

Loris Campetti *

Esattamente due anni fa la direzione di questa rivista mi chiese di scrivere un articolo sul sindacato che scelsi di iniziare con tre domande complicate ma per me essenziali: “Serve ancora il sindacato, nel terzo decennio del terzo millennio dopo Cristo? Chi rappresenta il sindacato nella stagione della globalizzazione neoliberista, quali figure sociali tutela e quali sono invece abbandonate allo strapotere del turbocapitalismo? Cosa è diventato il sindacato?”. Come due anni fa non sono in grado di dare risposte compiute che comunque non possono essere né semplici né individuali, posso solo cercare di inquadrarle nel contesto dato, che vede per la prima volta alla guida del governo una neofascista, quarantatré anni dopo la sconfitta alla Fiat e quasi dieci dopo il golpe renziano del Jobs Act. Il raffronto con il passato, quando l’esperienza operaia italiana e le sue forme di organizzazione rappresentarono un modello in Europa, è utile non per piangere sul latte versato ma per meglio cercare di interpretare il presente e le linee di tendenza, condizione indispensabile per cambiare lo stato di cose presente.

Piazza del Popolo si tinge di rosso

Il 22 settembre un’assemblea in piazza del Popolo ha coinvolto migliaia di delegati della Fiom arrivati a Roma da tutt’Italia per discutere di dignità e diritti insieme a giornalisti e attivisti di associazioni studentesche, sociali, ambientali. Un bel colpo d’occhio tutto quel rosso che si riappropria di uno spazio pubblico sempre più spesso occupato da manifestazioni d’orgoglio bellico dell’esercito e dell’aeronautica per attrarre i giovani verso un futuro di virile e patriottica combattività. Quel rosso delle bandiere e delle t-shirt mi ha fatto pensare agli sforzi del forse ultimo sindacato di classe per ridare visibilità, un volto, una fisicità ai lavoratori sbianchettati e nascosti, ridotti a merce come prima del biennio rosso ’68-‘69, comandati per interposto padrone da un algoritmo o un caporale, espulsi dalle agende della politica, dai talk show e dal Parlamento. Un bel colpo d’occhio, quell’istantanea su piazza del Popolo, un passettino per uscire dall’isolamento. Il passo successivo, “La via maestra”, la manifestazione del 7 ottobre in piazza San Giovanni organizzata dalla Cgil insieme a centinaia di associazioni della società civile. L’appuntamento successivo che in tanti si aspettano è il più importante e difficile: lo sciopero generale, con o senza la Uil, certamente senza la Cisl ridotta a ruota di scorta del governo. Riunificare il lavoro, sconfiggendo ogni tendenza neocorporativa, riscoprire le parole d’ordine che sono state il motore delle lotte negli anni Settanta: a parità di prestazione parità di trattamento, cioè di salario, diritti, orari, sicurezza. Il contrario di ciò avviene oggi in un cantiere navale dove la dignità di chi lavora è sventrata dentro una ragnatela infinita di appalti e subappalti lungo la quale i diritti sfumano via via che si scende; e rischio zero, per rispondere alla strage quotidiana nel lavoro in nome del profitto. Uno sciopero generale oggi deve ricostruire una rete sociale solidale nel territorio, e infine dare – e questa è la parte più difficile del progetto landiniano – uno scossone alle forze politiche che dicono di opporsi al governo di destra e alle sue politiche liberiste e fascistoidi, partendo dal dettato costituzionale. Organizzare nel 2023 uno sciopero generale è ben più complicato che venti o quaranta anni fa perché la platea a cui ci si rivolge è frantumata, impoverita, sfiduciata. E la crisi che travolge la sinistra non lascia indenne il sindacato che per uscire dalle nebbie della sconfitta e liberarsi dalle catene della burocrazia e delle rendite di posizione deve ricostruire una connessione sentimentale con le persone che vuole rappresentare. Uno sciopero generale che abbia un senso deve riuscire, cioè deve fermare il lavoro e in prospettiva il paese con l’ambizione di cambiarlo.

L’egemonia della destra e il falso nemico

Pensare che l’egemonia culturale della destra, cresciuta con la complicità di una sinistra orfana di un’altra cultura da cui tenta di liberarsi per conquistare uno strapuntino nel mondo incantato del pensiero unico, potesse fermarsi sulla soglia della fabbrica o sulla catena della bicicletta di un rider è un autoinganno. Gli operai, i lavoratori non sono rivoluzionari in sé ma solo quando prendono atto della loro condizione e si organizzano per modificarla. Né gli anticorpi prodotti da un’esperienza collettiva straordinaria durano in eterno, soprattutto se un’esperienza fatta di lotte, conquiste, sconfitte e soprattutto di dignità viene rimossa dalla politica fino a determinare la solitudine di quel che è diventata la classe dopo la rivincita del capitale. Il sindacato deve affrontare la rivoluzione tecnologica e nelle relazioni sociali con i soggetti che vuole organizzare e rappresentare in un contesto in cui il rancore rischia di sostituire più nobili sentimenti come la solidarietà, dove il nemico percepito nella catena del lavoro spesso non sta più in alto ma più in basso dentro una lotta di classe orizzontale e non più verticale, dove è venuta meno ogni rappresentanza politica del lavoro. L’assenza di sponde politiche che dura ormai se non da quarant’anni (la solitudine operaia ai cancelli di Mirafiori) da più di trenta (la caduta del muro di Berlino), ha isolato la resistenza operaia, vanificata in quanto non più in grado, da sola, di determinare cambiamenti strutturali.

L’albero, l’ascia e la foresta

Circola in rete un proverbio turco che recita più o meno così: “La foresta si stava restringendo, ma gli alberi continuavano a votare per l’ascia, perché l’ascia era furba e convinse gli alberi che, avendo il manico di legno, era una di loro”. Gridare allo scandalo scoprendo molto tardivamente che gli operai non votano più per i partiti della sinistra (absit iniura verbis), o non votano proprio, è ridicolo, segno di un distacco incolmabile con il mondo del lavoro o più banalmente di un cambiamento di campo e di obiettivi. O qualcuno crede che nella globalizzazione si possa assumere la sciocca e falsa decretazione della “fine del lavoro”?

Credo che il primo obiettivo che un sindacato dovrebbe porsi sia la formazione dei lavoratori. Formazione vuol dire insegnare la storia del movimento operaio, costruire i nessi tra persone, movimenti, obiettivi. Se di dignità si vuole parlare, allora bisogna parlare di lotta al precariato ma anche di solidarietà fattiva con i migranti per non lasciarli al loro destino di invisibili tra gli invisibili, esercito di riserva al servizio del capitale che sempre più punta sul dumping sociale. Bisogna parlare di pace e far tornare la guerra, nell’immaginario collettivo dei lavoratori, un tabù, anche se oggi schierarsi nel ridisegno del mondo è più difficile: la Jugoslavia di Milosevic, l’Iraq di Saddam, l’Afghanistan dei talebani, la Russia di Putin non sono il Vietnam di Ho Chi Minh e schierarsi oggi vuol dire semplicemente e soprattutto essere contro la guerra, come ci hanno insegnato Claudio Sabattini, Gino Strada, Tom Benetollo. E qui si torna a un altro aspetto fondamentale: nelle radici del sindacalismo non solo italiano c’è l’internazionalismo, l’unione dei proletari di tutto il mondo, un’idea fondativa che dalle origini ha sempre barcollato quando il conflitto tra stati è diventato guerra. Un approccio neocorporativo ai problemi posti dal nuovo mondo non fa che svilire l’autonomia del movimento operaio, oggi più necessaria che in passato, oggi che le forze dominanti nell’economia e nella politica puntano a scatenare il conflitto tra lavoratori, aziende, paesi. Il portato del neoliberismo è la guerra; ma il nemico non è lo straniero, l’operaio dell’altra fabbrica, l’operaio con la pelle di un altro colore. Il nemico è sempre lo stesso di ieri anche se si presenta in forme diverse. Da soli si perde.

Navigare controcorrente

Io credo che la Cgil attraversi una nuova fase, difficile e contraddittoria. Non basta avere un gruppo dirigente intelligente e appassionato – e io credo che Maurizio Landini rappresenti una svolta in questa direzione. Serve navigare controcorrente, costruire consenso dentro la propria organizzazione e, soprattutto, tra i lavoratori scavalcando ostacoli e invertendo un processo di burocratizzazione e passivizzazione andato avanti troppo a lungo. Servono alleanze con i mille solitari movimenti di resistenza al liberismo, costruite a partire dalla base e dalle pratiche comuni e non a tavolino solo tra menti pensanti e dirigenti illuminati. Anche in questo può aiutare la rilettura dell’esperienza degli anni Settanta, quando Giulio Maccacaro e Medicina democratica si battevano insieme a Luigi Mara e il consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza e Ivar Oddone insieme al Consiglione di Mirafiori in difesa della salute dei lavoratori. Le Rsu di oggi non sono i delegati di gruppo omogeneo conosciuti ai tempi della Flm, d’accordo; e il magazziniere o l’autista di Amazon o il ciclista che consegna le pizze o il traduttore e il giornalista a partita Iva o il raccoglitore di pomodori o il gruista o l’informatico a progetto o lo stesso operaio di linea alla Whirlpool e alla Gkf non sono gli operai gramsciani del ventesimo secolo. Ma è solo da loro e con loro che un sindacato del terzo millennio può ripartire, pena la perdita di senso e di utilità.

In conclusione, ad almeno una delle tre domande iniziali mi sentirei di dare una risposta affermativa: sì, nel terzo decennio del terzo millennio dopo Cristo un sindacato è necessario, anzi obbligatorio. Per le altre due domande spero soltanto di aver fornito qualche elemento di riflessione.


* Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Laureato in chimica, già nella seconda metà degli anni Settanta è passato al giornalismo. A “il manifesto” fino al 2012 ha ricoperto tutti i ruoli occupandosi prevalentemente di lavoro e lotte operaie su cui ha scritto molti libri di inchiesta, e nel 2020 è stato pubblicato da Manni il suo primo romanzo, “L’arsenale di Svolte di Fiungo”. Collabora con giornali online e testate straniere.

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