Un nuovo possibile, ma difficile, ordine internazionale

Vincenzo Comito

Una visione generale

Al di là delle sofferenze del popolo ucraino e di quello russo, il conflitto in atto appare semplicemente una battaglia nella guerra in corso per il governo del mondo tra gli Stati Uniti e la Cina. Non è certo la prima, altre si sono già svolte anche senza che ce ne accorgessimo veramente, essendo solo di natura commerciale o tecnologica, non combattute con i cannoni, mentre diverse ancora, speriamo non troppo letali, sono da prevedere per i prossimi anni. 

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Il punto è che il mondo è cambiato e continua a cambiare velocemente, mentre gli Stati Uniti si rifiutano di aprirsi alla necessità di un nuovo ordine mondiale che lasci spazio adeguato ai nuovi protagonisti, Cina, India, Russia, Iran, Turchia e così via, a un mondo cioè pluralista, abbandonando quello unipolare che abbiamo avuto sino a ieri. Per altro verso, la strategia Usa è quella che nessuno deve eguagliare la potenza economica, tecnologica, militare e politica degli Stati Uniti. Questa strategia è stata provata negli scorsi decenni con successo prima contro il Giappone, poi contro l’Unione Sovietica, ma essa appare ora in grave difficoltà.

In qualche modo la situazione odierna si potrebbe paragonare a quella della crisi del 1929; è stato a suo tempo suggerito che si trattò di una crisi di transizione, provocata in larga parte dal fatto che il paese egemone, la Gran Bretagna, non ce la faceva più a governare il mondo, mentre quello nuovo, gli Stati Uniti, non era ancora in grado di farlo. Sarà solo la seconda guerra mondiale che definirà il nuovo quadro globale.

Le forze nuove 

Secondo i dati della Banca Mondiale, utilizzando per il calcolo il criterio della parità dei poteri di acquisto, il PIL dei principali paesi si colloca nel 2021 nel seguente modo: la Cina appare in testa al gruppo con 26,6 mila miliardi di dollari, seguono gli Stati Uniti con 22,7 mila miliardi, poi l’India con 10,2, il Giappone con 5,6, la Germania con 4,7, la Russia con 4,3. Un panorama diverso da quello che siamo abituati a immaginare. Inoltre, sempre secondo i dati della BM, i paesi emergenti producono oggi all’incirca il 60% del PIL mondiale, il che significa che a quelli ricchi resta il 40%. Apparentemente, alla fine di questo decennio, il rapporto potrebbe pendere ancora di più dalla parte dei primi. 

La Cina ha superato da diversi anni gli Stati Uniti sul fronte dei commerci internazionali; lo ha fatto, secondo le statistiche citate, anche su quello del PIL, mentre ora la guerra si è spostata sul piano tecnologico, militare, finanziario, come vedremo in dettaglio più avanti.

L’Unione Europea e la Germania 

E l’Europa in tutto questo? L’attuale crisi ha mostrato un quadro desolante, con un gruppo dirigente, dalla von der Leyen a Michel a Borrell, palesemente e largamente non all’altezza della situazione, che non ha trovato di meglio, insieme ai responsabili dei singoli paesi dell’UE, che allinearsi completamente alla guerrafondaie posizioni di Biden, annullando completamente la sua autonomia. Ma tale situazione è in qualche modo anche il riflesso di una debolezza strategica, debolezza che viene da lontano. 

Segnaliamo in particolare, a tale proposito, due fattori. Sul piano demografico, la popolazione della UE è in calo costante; per risollevare la situazione occorrerebbe accogliere 2,5/3,0 milioni di immigrati all’anno, cosa che il nostro continente rifiuta categoricamente di fare. Sul piano tecnologico, poi, elemento ancora più decisivo, oggi, anche a ragione delle politiche fortemente neoliberiste volute a suo tempo da Bruxelles, si registra un dominio quasi assoluto di Stati Uniti e Cina. Certo l’Unione ha tardivamente deciso di correre ai ripari, avviando una qualche politica industriale in alcuni dei settori avanzati, ma lo sforzo programmato non appare in alcun modo sufficiente per colmare il ritardo. 

Nel contesto dell’UE, l’unico paese alla fine importante appare la Germania, che, conscia della posta in gioco, cerca di resistere per quanto può ai diktat di Biden; in generale, il paese è stretto tra l’obbedienza atlantica in politica e gli interessi economici, che la spingono da una parte a continuare a avere rapporti con la Russia per le materie prime, dall’altra soprattutto a cercare di mantenere degli stretti legami sul fronte industriale con la Cina, suo principale partner commerciale. Come affermava qualche tempo fa un dirigente d’impresa tedesco, “con la Cina, se non sei a tavola sei nel menu”. Ma non sappiamo come finirà con il nuovo governo. 

Segnaliamo infine la triste sorte attuale dei paesi più poveri, già gravati da un carico di debiti cui non riescono più a far fronte, prostrati poi dal Covid e ora, causa la guerra, dalla mancanza di beni alimentari essenziali. La stampa riporta in particolare la difficile situazione dell’Africa dell’Est, che ha già subito negli ultimi anni gravi danni dalla siccità e ora appare minacciata dalla carestia. 

Deglobalizzazione e decoupling ?

Premessa

Riprendiamo il discorso sin qui fatto da un altro punto di vista. 

E’ almeno sin dai tempi di Trump che si parla di deglobalizzazione e di decoupling. Ora tale discorso viene di nuovo portato sulla scena, in particolare dalla stampa anglosassone, in relazione ai fatti dell’Ucraina. 

Quanto possiamo reputare ci sia di vero in tali affermazioni? A nostro parere bisogna distinguere quello che è accaduto sino a oggi, e accadrà ancora nel breve-medio periodo, da quello che si intravede come un possibile sbocco di fondo a più lunga distanza. 

b)A breve, medio termine

Per quanto riguarda la prima parte del discorso, ricordiamo che, anche se non erano mancati alcuni precedenti, è stato Trump che, intravedendo una minaccia cinese alla supremazia Usa, ha innescato una serie di contromisure: così sono state alzate le tariffe per l’importazione negli Stati Uniti di molte merci del paese asiatico; è stata progressivamente bloccata la vendita di semiconduttori avanzati e di altre tecnologie sensibili alla stessa Cina, riuscendo a ottenere un comportamento simile anche dagli alleati; si è predicata più in generale la necessità di un decoupling delle economie occidentali da quella cinese. Trump è arrivato a chiedere alle imprese americane di ritirarsi dal paese asiatico, mentre anche altri paesi, dal Giappone alla Corea del Sud, hanno promosso operazioni simili. L’arrivo poi della pandemia ha mostrato, da una parte, la precarietà delle catene di fornitura globale, con le rilevanti difficoltà logistiche che ne sono seguite, mentre dall’altra è emerso come i paesi occidentali siano legati alla Cina per molte forniture mediche cruciali.

Ma la realtà dei fatti, almeno sino a oggi, sembra andare in tutt’altra direzione da quella auspicata da Trump. Nel 2021 le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno registrato un vero e proprio boom, nonostante le difficoltà logistiche; nello stesso anno la Cina è risultata essere il primo paese di destinazione degli investimenti esteri, mentre si è anche assistito alla rivalutazione dello yuan e all’afflusso di copiosi capitali occidentali. Tali tendenze sembrano continuare nel nuovo anno. Intanto il mercato cinese è ormai il più importante al mondo per un numero crescente di settori, spesso raggiungendo o superando in alcuni di essi il 50% del totale delle vendite mondiali, mentre le forniture cinesi al resto del mondo godono ancora di grandi vantaggi in termini di rapporto qualità/ prezzo.

Facciamo un solo esempio, ma molto significativo. A suo tempo il primo ministro inglese, David Cameron, aveva aperto le porte all’ingresso dei cinesi nella costruzione delle nuove centrali nucleari del paese. E’ poi arrivato Boris Johnson, che, pressato anche dagli americani, vorrebbe mandare a casa gli asiatici. Ma ci sono dei problemi. Intanto ci vuole qualcuno che li sostituisca finanziariamente, operazione non facile; poi, proprio in queste settimane, i cinesi hanno montato l’unità principale di una centrale inglese in costruzione; ebbene, essa, a parità di qualità con quelle occidentali, costa solo un terzo delle stesse.

Ma comunque non si può dire che dai tempi di Trump nulla sia veramente cambiato.

Si è registrato un distacco, certo parziale, ma molto significativo, in alcuni settori, da internet alle tecnologie avanzate, alla dimensione finanziaria. Per altro verso, si va in parte verificando una specie di decouplingasimmetrico da parte della Cina. Nel campo specificamente finanziario, mentre il paese cerca di annullare la sua dipendenza dall’esterno, spinge invece le imprese finanziarie estere a insediarsi in forze nel paese. Qualcosa di simile sta accadendo, per alcuni versi, anche nel settore delle materie prime. 

In un orizzonte più lungo

In una prospettiva di lungo termine, appare plausibile pensare a una situazione in cui le attività degli Stati Uniti e quelle della Cina tendano a separarsi ancora di più. A questo proposito, si può individuare l’affermarsi di due blocchi separati, uno occidentale, l’altro a guida cinese e che comprenderebbe, per quanto riguarda quest’ultimo, in prima linea, oltre alla Russia anche i paesi dell’Asia Centrale, l’Iran ed altri paesi asiatici e in [vc1] seconda linea diversi altri paesi asiatici, africani e dell’America Latina. In alternativa ai due blocchi, potrebbe invece prevalere una maggiore frammentazione, con l’affermarsi di diversi centri relativamente autonomi. 

E’ difficile prevedere quale sarà l’assetto vincente; pensiamo comunque che la Cina potrebbe forse preferire il secondo, tentata come è stata in tutta la sua storia dalla volontà di stare relativamente isolata dal mondo. Tale tendenza sembra ora riemergere parallelamente all’ostilità apertamente dichiarata dal mondo occidentale nei suoi confronti.    

d)A che punto è la Cina

Esaminiamo a questo punto meglio il quadro della situazione cinese nei vari settori. Per quanto riguarda quello agroalimentare, il paese è impegnato da tempo a raggiungere una sostanziale autosufficienza nelle produzioni più importanti. I risultati raggiunti sono incoraggianti. D’altro canto, esso ha proprio di recente aumentato fortemente le sue riserve di prodotti di base, che ora costituiscono probabilmente, in alcuni settori, il 50% e anche più di quelle mondiali. Per altri versi, un terzo livello di sicurezza è rappresentato in questo campo dalle produzioni russe. 

Nel settore finanziario, non dovrebbero esserci di nuovo problemi, e il paese ha abbondanza di capitali per finanziare la sua crescita. Anche per le materie prime, la Cina potrebbe contare sulla Russia.

E veniamo alle tecnologie. Oggi il paese asiatico compete ormai da pari a pari con gli Stati Uniti nella gran parte delle nuove tecnologie: pensiamo all’intelligenza artificiale, all’auto elettrica e a quella autonoma, ai computer quantistici, alla fusione nucleare, ai missili ipersonici, eccetera. Esso è ormai il primo al mondo per quanto riguarda il numero dei brevetti depositati, quello degli articoli scientifici pubblicati, quello del numero dei laureati. Nnel 2021 hanno preso una qualche laurea circa 9.750.000 giovani, di cui circa 5.000.000 in materie scientifiche. Ma esso presenta ancora dei punti di ritardo nel settore chiave dei chip, oltre che nel campo aeronautico e del software, e ci vorranno ancora diversi anni perché possa sperare di raggiungere il top nel settore. 

E veniamo al campo militare dove l’avanzo statunitense sembra quasi incolmabile; consideriamo, a questo proposito, che nel 2021gli Stati Uniti hanno speso per il settore 778 miliardi di dollari (il 3,8% del PIL), contro i 258 della Cina (solo l’1,7% del PIL). Ma il primo paese deve tra l’altro mantenere circa 1000 basi militari all’estero con i relativi costi (sia la Cina che la Russia sono sostanzialmente circondate da basi statunitensi), mentre la Cina non ha ambizioni di questo tipo, mirando ad una strategia eminentemente difensiva ed è accreditata di una sola base all’estero.

Per altro verso, gli Stati Uniti posseggono, se ricordo bene, una ventina di portaerei, mentre la Cina deve ancora completare l’allestimento di una terza. Ora, l’investimento in una sola nave di questo tipo richiede, con tutti gli apparati di sostegno, una spesa di circa 12 miliardi di dollari. Ma alla Cina basta un missile che costa poche centinaia di migliaia di dollari per affondarne una. Alla fine, quindi, il divario non è così esteso come sembra.

E veniamo infine alla questione della moneta, uno dei due strumenti più importanti di supremazia ancora in mano degli Stati Uniti, insieme ai chip. 

Una valuta serve principalmente per regolare le transazioni commerciali, nonché quelle finanziarie e come moneta di riserva delle banche centrali. Per quanto riguarda questo ultimo aspetto, il dollaro pesa oggi per il 59% delle riserve totali mondiali, contro il 71% di una ventina di anni fa (la differenza è dovuta all’avvento dell’euro e alla diversificazione verificatasi nel frattempo), mentre lo yuan cinese pesa soltanto per il 3%-4% del totale. Tra le sanzioni poste in essere contro la Russia, c’è stata anche quella del sequestro delle riserve del paese che erano depositate in Occidente. Incidentalmente tale misura ricorderà al mondo che nessun paese con riserve nelle valute occidentali è al riparo da possibili rappresaglie da parte di tali paesi; questo spingerà molte banche centrali ad aumentare le loro riserve nella valuta cinese, che presenta peraltro l’handicap di non essere convertibile (la Cina vuole restare autonoma dai mercati finanziari privati, poi in parte almeno pilotati dagli Stati Uniti).

Per quanto riguarda le transazioni finanziarie, la gran parte di esse si svolge attraverso la rete swift, di nuovo controllata dall’Occidente. Le banche russe sono state escluse ora da tale rete, salvo alcune di esse per le transazioni sul gas; ora anche questa misura spingerà presumibilmente la Cina a cercare di sviluppare al massimo la sua rete autonoma, inserendo nel sistema anche la Russia. Restano le transazioni commerciali, anch’esse per la gran parte regolate in dollari anche se negli ultimi tempi ci sono segni di un forte possibile aumento di quelle in yuan.

Una situazione, come si vede, in forte movimento, che solo nel lungo termine dovrebbe portare la Cina a un importante livello di autonomia rispetto al dollaro.

Conclusioni

Alla fine, sembra che ci troviamo a vivere in un difficile periodo di transizione tra un vecchio e un nuovo assetto dell’ordine mondiale; nuovo assetto di cui non si percepiscono peraltro ancora i possibili caratteri. Sembra comunque che tale passaggio non sarà facile ed esso appare irto di pericoli. Il pacifico passaggio precedente del testimone tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti fu fortemente favorito, oltre che dal grave indebolimento del paese europeo, comunque dalla seconda guerra mondiale.

Sulla base dei dati disponibili e a meno di sorprese sempre possibili, sembra oggi difficile immaginare che il centro economico e finanziario del mondo non si concentri in un prossimo futuro in Asia.                          

Vincenzo Comito è economista. Ha lavorato a lungo nell’industria, nel gruppo Iri, alla Olivetti, nel Movimento Cooperativo. Ha poi esercitato attività di consulente ed ha insegnato finanza aziendale prima alla Luiss di Roma, poi all’Università di Urbino. Autore di molti volumi. Collabora a “Il Manifesto” e a www.sbilanciamoci.info.


 [vc1] Secondo cerchio molti paesi asiatici, Africani, dell’America latina.

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