Violenza e guerra civile all’origine della presa del potere fascista

Patrizia Dogliani

La violenza politica all’origine della Marcia su Roma 

Recenti convegni organizzati in occasione del centenario della Marcia su Roma  (il convegno promosso a Roma dall’ANNPIA il 20-21 ottobre e quello sempre a Roma presso la Fondazione Gramsci dal 27 al 29 ottobre)   hanno potuto che confermare che la violenza fu sin dall’inizio parte costitutiva del movimento fascista. Il fascismo reclutava i suoi adepti tra coloro che avevano pratica di armi e che, incapaci di reintegrarsi nella vita civile, propendevano a divenire dei professionisti della violenza e a fare della violenza un’occupazione politica a tempo pieno. Occorre contraddistinguere la specificità dell’azione fascista dalla più generale situazione di violenza diffusa nella società italiana ed europea del primo dopoguerra ed anche da altre forme di violenza tradizionale o episodica che contemporaneamente si espressero in Italia. 

Il primo eclatante fatto di sangue era avvenuto il 15 aprile 1919 con l’attacco di gruppi di futuristi e di arditi, poi confluiti nei Fasci di combattimento nati il mese precedente,  alla redazione milanese dell'”Avanti!”. Apparentemente  isolato, esso fu però d’esempio e di primogenitura ad altri che seguirono. All’inizio del 1919, la violenza politica non riuscì a  dilagare in grandi aree urbane  settentrionali: il movimento operaio nelle sue roccaforti torinesi  e milanesi si autodifese; gli industriali preferirono ricorrere alla trattativa o alle forze di polizia e dell’esercito per mantenere l’ordine. Due successive occasioni  portano la violenza fascista ad esprimersi in provincia: i grandi scioperi agricoli dell’estate 1920 e la conquista dei comuni da  parte dei socialisti nell’autunno. Le associazioni degli agrari della Valle padana, come della Toscana e dell’Umbria agricole, iniziarono ad armare volontari  perché si sostituissero all’esercito per imporre ordine e controllo nella campagne. Le squadre (da qui il termine “squadrismo”) partivano normalmente dai capoluoghi di provincia, colpivano e terrorizzavano individui, leghe e sindacati di braccianti e piccoli coltivatori, e si poi ritiravano nelle città di provenienza. 

Queste squadre erano composte da ufficiali smobilitati, affiancati da  studenti universitari e  figli dell’aristocrazia e della grande borghesia terriere,  abitualmente  residenti in centri urbani e città universitarie, timorosi di perdere privilegi e soprattutto il controllo della  terra. Ad essi si unirono, anch’essi per salvaguardare propri interessi e posizione sociale, coltivatori diretti, medi e grandi affittuari, mezzadri. In questo modo il Fascismo  saldò un legame tra città e campagne circostanti. Lo squadrismo agrario dilagò nel centro-nord tra la seconda metà del  1920 e la prima del 1921 e rivelò “uomini nuovi”, capi ed organizzatori della violenza: Olao Gaggioli e Italo Balbo nel ferrarese, Leandro Arpinati nel bolognese, Roberto  Farinacci nel cremonese. Furono definiti “ras”, capi locali con ampio potere e seguito; alcuni si misero al servizio degli agrari; altri, come nelle province di Alessandria, Pavia ed Arezzo, accorsero a formare  squadre  espressamente richieste e finanziate dalle confederazioni agrarie.    La loro azione non si limitava a terrorizzare popolazioni ed organizzazioni contadine; essa puntava alla distruzione di quei centri, gestiti essenzialmente da socialisti e cattolici popolari,  che sviluppavano forme di resistenza, di solidarietà,  di cooperazione: sedi di partito, di leghe, di sindacati, di cooperative di consumo e produzione, uffici di collocamento, tipografie, scuole  popolari, circoli culturali,  osterie e sale per riunione e ricreazione;  e soprattutto  i “comuni rossi”.  Il fatto di sangue più drammatico che aprì la nuova stagione di scontro civile  avvenne a Bologna il 21 novembre 1920 in Palazzo comunale d’Accursio e nella sottostante piazza centrale: nove morti e cinquanta feriti tra la folla che ascoltava il sindaco socialista massimalista Enio Gnudi  condannare un recente attacco squadrista alla locale Camera del lavoro.

Intanto  la confederazione italiana dei sindacati economici,  nata a Milano nel novembre 1920 con aperte simpatie per il movimento fascista,  dava  vita a Bologna  ad una più strutturata  confederazione nazionale dei sindacati nazionali diretti dal sindacalista ferrarese Edmondo Rossoni.  Il nuovo sindacato avrebbe avuto così modo di utilizzare a proprio favore  uno strumento di lotta  che sino ad allora era rimasti essenzialmente prerogativa delle sinistre nelle prove di forza con il padronato e con l’autorità dello Stato: lo sciopero generale. Più tardi, Italo Balbo e Leandro Arpinati  misero  alla prova il governo Facta con uno sciopero bracciantile, organizzato in collaborazione con lo squadrismo agrario, che paralizzò tra il 12 e il 14 maggio 1922 la provincia di Ferrara, riuscendo così  a sottrarre ai sindacati e alle leghe di sinistra  l’affidamento degli appalti dei lavori  pubblici. 

La difesa delle città: gli Arditi del Popolo

Tra il 1920 e il 1922, le istituzioni dello Stato  avevano oramai ceduto ad altri  il monopolio della violenza. Ufficiali dell’esercito e delle prefetture  furono incapaci o più spesso conniventi nell’uso della forza da parte degli agrari e verso la violenza fascista in generale. Essa veniva contrastata, dove era possibile, da un altrettanto violenta  autodifesa da parte dei militanti di sinistra. I militanti socialisti  si mostrarono tra i più debole ed impreparati; qualche maggiori possibilità di controllo del territorio era possibile in alcune città industriali operaie dove l’esperienza dell’occupazione consiliare  delle fabbriche, come a Torino nel settembre 1920, aveva formato  una classe giovane e combattiva che in parte sarebbe confluita nel Partito comunista. In alcune città, come Parma e Bari,  la tradizione sindacalista rivoluzionaria agevolò la formazione di gruppi armati: gli Arditi del popolo, nati nell’estate 1921. 

Tra le poche esperienze ad avere successo fu la resistenza all’aggressione squadrista a Parma, da parte degli Arditi del popolo guidati da un loro fondatore:  Guido Picelli,  deputato socialista ed ex-ufficiale. Successivamente, Picelli sarebbe entrato nelle fila del PCd’I; più volte aggredito dai fascisti e inviato  al confino, espatriato nel 1932, morirà combattendo  in Spagna nel gennaio 1937.  Nelle giornate di inizio agosto 1922 le barricate dei rioni popolari d’Oltretorrente resistettero all’urto di migliaia di fascisti provenienti da altre province, e capeggiati da Italo Balbo.  Questa vicenda, come il mito che nella memoria popolare antifascista nacque sin da subito per poi protrarsi nell’Italia repubblicana, sono stati recentemente studiati e ricordati da un Convegno tenutosi a Parma i 18-19 novembre).  Il caso di Parma rimane emblematico di quanto avrebbe potuto accadere e non accadde: una resistenza politica e popolare alla violenza delle squadre fasciste che avrebbe potuto avere successo e dissuaso parte della borghesia a non  sostenerle, qualora le autorità di polizia e l’esercito non fossero stati assenti o addirittura consenzienti durante le aggressioni. Furono dunque poche le aree nelle quali la reazione popolare riuscì a contenere lo squadrismo: a  Sarzana, nell’entroterra di La Spezia, comune “rosso” attaccato nella notte del 20 luglio 1921 da una squadra di circa cinquecento fascisti toscani comandati da Amerigo Dumini (colui che tre anni dopo avrebbe ucciso il deputato Giacomo Matteotti) mostrò che si poteva contrastare gli assalti fascisti se forze dell’ordine e popolazione, che in questa caso era stata armata dagli Arditi del popolo, vi si opponevano con  decisione.    

I contendenti, gli arditi del popolo come gli squadristi appartenevano a classi giovanili. Fu Emilio Lussu ad osservare in Marcia su Roma dintorni (apparso nel 1933 a Parigi) che “studenti, piccoli impiegati, artigiani prima della guerra, erano diventati tenenti e capitani, comandanti di plotone, di compagnia, di battaglione. Chi ha comandato una compagnia in tempo di guerra, può ricominciare, senza sforzo, a studiare sui banchi di scuola? Chi ha comandato un battaglione, può rimettersi, senza sentirsi umiliato, a fare l’impiegato d’archivio o lo scrivano a 500 lire al mese?” La violenza  fascista si rivelò vincente perché prendeva l’iniziativa dell’azione e non era solo difensiva, si basava su una strategia del terrore e mirava all’intimidazione e all’umiliazione dell’avversario, costretto a ingerire olio di ricino, abbandonato bastonato,  sporco e  nudo in luoghi pubblici e di transito,  o peggio  alla sua eliminazione. 

Una guerra civile?

Il recente dibattito ha escluso che si trattasse di una guerra civile: nel paese si svolse una lotta difensiva delle proprie sedi  da parte delle sinistre ed una offensiva da parte delle squadre fasciste che disponevano di grande mobilità: intere province furono conquistate a mano armata grazie a questa mobilità e tattica militare, permessa da finanziamenti e da automezzi messi a disposizione dagli agrari, e grazie all’immobilismo delle forze dell’ordine. Particolarmente efficaci erano le “colonne  di fuoco”, organizzate in Emilia da Arpinati e da Balbo. Una di queste,   composta da almeno tremila fascisti ferraresi e bolognesi, “conquistò” Ravenna nel luglio 1922, incendiando e distruggendo  edifici e quartieri  capisaldi del movimento cooperativo e delle leghe bracciantili della provincia.  La “marcia” fu sperimentata molte volte in provincia prima che si indirizzasse verso la capitale e il governo centrale.            

Nel centro-nord, l’offensiva squadrista toccò il suo parossismo nella primavera-estate 1921, rientrando nelle città dopo aver conquistato le campagne. Nell’aprile 1921 veniva incendiata la Camera del lavoro di Torino dopo che la Fiat aveva deciso un massiccio licenziamento e poi una serrata degli stabilimenti; nel luglio, il 13-14,  squadre fasciste occuparono Treviso, e uno scontro armato provocò morti a Trieste. In alcune città del Veneto, come a Venezia, sino al 1921, il Fascismo aveva mantenuto la sua origine dannunziana;  gli industriali veneti soprattutto del tessile l’avevano guardato con diffidenza, preferendo l’avanzata dei cattolici. Il Fascismo agrario veneto invece puntò alla eliminazione delle basi di organizzazione e di resistenza economica  dei cattolici e dei socialisti in provincia, con attacchi alle loro cooperative, alla casse rurali, alle amministrazioni in particolare nel trevigiano (dove l’offensiva fu guidata dal  fiumano  Giovanni  Giuriati),  nel Polesine e nel padovano.  La violenza fascista si  estese poi  in alcune aree del Meridione, in particolare in Puglia e nella Sicilia orientale, nella provincia di Siracusa,  che comprendeva a quel tempo i territori ragusani,  epicentro del fascismo agrario siciliano.

La conquista del Meridione

Dunque sino al 1921 il Fascismo rimase un fenomeno dell’Italia centro-settentrionale; i fasci erano presenti in prevalenza nelle città di media grandezza (con l’eccezione di Milano, Trieste, Bologna e Firenze), in aree di pianura e in zone collinari. Nell’area padana si erano arroccati nell’area nord-est piuttosto che a nord-ovest e il loro sviluppo era stato agevolato da vie di comunicazioni:  dal corso naturale del fiume Po, dall’asse stradale della via Emilia sino a Bologna e dai passi appenninici che comunicavano con Firenze e con Perugia. Alcune presenze erano anche registrate in Abruzzo, nel napoletano, nel Tavoliere pugliese. Lo squadrismo agrario era stato importato in Puglia e in Sicilia rompendo i tradizionali rapporti di forza e d’uso della violenza per imporre autorità e rivendicazioni. Nel foggiano e nel barese, la violenza  progredì secondo cerchi concentrici che ampliandosi toccarono i  grandi centri bracciantili di Adria, Cerignola, Minervino, Spinazzola, Gioia del Colle, guidati da alcuni  ras locali. Tra questi, Giuseppe Caradonna, considerato il “duce di Cerignola”, un giovane proprietario che finanziò e diresse le squadre e conquistò successivamente la città di Foggia, divenendone deputato.  Vi è però una sostanziale differenza tra fascismo agrario padano e quello pugliese. Il fascismo pugliese non registrò né sbavature né compromessi, non fu connotato da nessuna forma di populismo reazionario, non adottò parole d’ordine demagogiche:  fu puro squadrismo e come tale provocò uno scontro armato frontale tra braccianti sindacalizzati e squadristi, reclutati in un ceto proprietario e di grandi affittuari, di studenti, di ufficiali congedati, di professionisti della violenza come il capitano sardo degli arditi Salvatore Addis, al soldo dell’associazione agraria della provincia di Bari.  I fascisti conquistarono Cerignola all’inizio del 1922, nel luglio cadde il comune di Adria; amministratori e sindacalisti, tra essi Giuseppe Di Vittorio, si rifugiarono in Bari che cadde per ultima all’inizio dell’agosto. Analogamente, nel ragusano gli squadristi furono reclutati tra  emigrati siciliani che avevano fatto una prima esperienza nello squadrismo agrario in settentrione, come Pippo Raguso, ritornato a Palermo nel 1921 dopo essere stato squadrista  in Romagna e a Bologna. Essi  si mossero contro un forte movimento bracciantile diretto dai socialisti, sferrando nella primavera 1921 i primi assalti ad organizzazioni e  circoli socialisti di Siracusa e di Ragusa sino alla conquista definitiva nel 1922 del comune di  Ragusa, e nel luglio della roccaforte  di Lentini.

Intanto, al nord la direzione del movimento fascista cercava di riportare sotto controllo le squadre e i capi locali. Il 15 maggio 1921 si erano tenute nuove elezioni politiche che avevano portato alla Camera i primi 35 deputati fascisti eletti in liste di coalizione tra demoliberali e destre nazionalista e fascista assai eterogenee. Il Partito socialista teneva comunque sul piano nazionale anche dopo la partenza di coloro che avevano dato vita al partito comunista, ma cominciava a cedere terreno ai  fascisti nelle sue aree più  consolidate del centro-nord. All’inizio dell’estate, Mussolini propose  un “patto  di pacificazione tra destre e sinistre” che aveva diversi obiettivi, tra questi:  tranquillizzare  quei settori dei ceti medi che si stavano avvicinando ai Fasci; eventualmente giungere ad un accordo con le forze popolari, socialiste e cattoliche, per costruire un fronte antiliberale; ed anche normalizzare il movimento in vista di trasformarlo in un vero e proprio partito politico.  Dopo che diversi  Fasci, in particolare toscani ed emiliani, rifiutarono in  accese assemblee il “patto”,  Mussolini accelerò  nell’autunno la formazione del nuovo partito. Con il terzo congresso nazionale dei Fasci che si aprì a Roma al teatro dell’Augusteo il 7 novembre 1921, nasceva ufficialmente il Partito nazionale fascista: dagli  80.000 iscritti nel marzo 1921, divenuto  partito questa forza politica nel  maggio 1922 aveva raggiunto i circa 322.000 aderenti. 

Verso Roma

Il secondo governo Facta, ricostituito nell’agosto 1922, con il voto contrario di socialisti, comunisti e fascisti, non sembrò in grado di arginare la violenza nel paese e di utilizzare presidi militari e prefetture  per riportare ordine;  né i liberali, diretti ancora da Giolitti, si convinsero dell’opportunità di accettare esponenti fascisti per neutralizzarli e per  ricondurre, con responsabilità di governo,  il Fascismo alla legalità. Nel settembre 1922, Mussolini faceva cadere una serie di pregiudiziali istituzionali del programma originale del movimento fascista, accantonando  il repubblicanesimo e promettendo che avrebbe, qualora chiamato al governo, rispettato la monarchia e  posto fine alla lotta di classe  in previsione della creazione di  una nazione forte ed unita,  autorevole in  politica estera. Venne organizzato un comando politico- militare, un quadrunvirato, composto da Cesare De Vecchi, Emilio De Bono e Italo Balbo, responsabili della milizia, e dal segretario nazionale del partito Michele Bianchi. Il momento si presentò il 26 ottobre, quando di fronte all’ingovernabilità del paese, i ministri rassegnarono le dimissioni nella mani di Facta, sperando che questo avrebbe richiamato alle proprie responsabilità i  militari e soprattutto il sovrano. Al re Vittorio Emanuele III si pose come scelta di mettere  sotto stato d’assedio la capitale e di  chiamare circa 30.000 militari a difenderla dal corpo di spedizione fascista che si stava radunando a Perugia. I fascisti  apparivano in numero inferiore e  meno armati ed addestrati delle truppe regolare, ma erano dotati di una  precisa strategia: la loro marcia su  Roma era  accompagnato da numerosi fatti d’armi e di violenza in centri minori. Non si trattò di  un colpo di Stato, bensì della minaccia di attuarlo.  Lo scontro frontale, che con l’esercito non poteva essere vinto nella capitale, fu di fatto tentato e  moltiplicato in periferia, privando d’autorità i governi locali e i rappresentati del governo centrale e   disorientando l’opinione pubblica. 

Per lungo tempo,  la Marcia su Roma è stata giudicata una farsa da molti antifascisti e la strategia della violenza in essa sviluppata è stata minimizzata, per opposte ragioni,  sia dalla storiografia fascista che da quella antifascista.  Mussolini, con la ricostruzione fatta a dieci anni dall’evento, contribuì a far sì che esso non venisse considerato un “colpo di stato” bensì, il momento più alto  della mobilitazione “rivoluzionaria” e fondante dello Stato fascista: una mossa geniale di una più ampia strategia politica. Anche gli osservatori del tempo minimizzarono l’episodio: sia gli antifascisti, come  Emilio Lussu che la descrisse come una farsa ben riuscita grazie alla complicità del sovrano, di alti ufficiali dell’esercito e di una parte della classe politica; sia  simpatizzanti atipici ed umorali come il giornalista  Curzio Malaparte che aveva ammirato  la strategia del  paventare il colpo di stato per evitarlo:  “quando il funzionamento della macchina insurrezionale è perfetto gli incidenti sono molto rari”. 

La storica Giulia Albanese ha sottolineato che fu proprio la Marcia su Roma a rendere palese “una volta  di più, la forza dei fascisti, l’incapacità e la non volontà dello Stato di reagire e di far valere alcuni principi fondamentali della sua esistenza, tra i quali la libertà di stampa, la libertà di espressione e di associazione, ma anche il monopolio della forza” . La sera del  28 ottobre, il re, dopo aver interpellato i suoi più stretti consiglieri militari circa la tenuta dell’esercito in caso di conflitto armato, preferì, come gli permetteva lo Statuto, incaricare della formazione di un nuovo governo Benito Mussolini, che si era tenuto in prudente attesa degli eventi nella sua sede di Milano. Fu così che il  Fascismo riconobbe in quell’atto e in quella giornata la data della sua nascita come regime politico. La storiografia antifascista sin dai suoi esordi ha preferito postdatare la nascita al gennaio 1925. Oggi, storici  oramai fuori da tradizioni storiografiche militanti  ritengono che il  primo governo  Mussolini abbia rappresentato indubbiamente l’inizio della dittatura in Italia e la fine delle istituzioni liberali, e che,  e qui risiedono grande interesse e attualità di una riflessione seria sulle fonti,  “un sistema istituzionale può essere trasformato senza che ciò sia chiaramente compreso da chi assiste alle trasformazioni”, dai suoi contemporanei. 

Per approfondire:  

Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Utet, ristampa 2022

Giulia Albanese, La marcia su Roma, Laterza, ristampa 2022

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